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Isola Tiberina
Storia
ISOLA TIBERINA (detta anche Lycaonia, di S. Bartolomeo, dei Due Ponti).
L'isola Tiberina fu anticamente chiamata semplicemente Insula oppure "Insula inter duos pontes"; successivamente fu detta anche "Lycaonia" nel medioevo (forse per la presenza sul Ponte Cestio di una statua rappresentante questa regione dell'Asia Minore, che divenne provincia nel 373 d.C.) e "di S. Bartolomeo" (dal nome della chiesa) nel '600-'700.
Dovuta, secondo la leggenda, all'accumulo di fango sulle messi di Tarquinio il Superbo gettate nel Tevere dai Romani quando lo cacciarono, è in realtà tufacea, come i vicini colli.
Guado naturale, fu determinante per il costituirsi di insediamento stabili sulle alture circostanti e venne collegata alla terraferma da due ponti verosimilmente dapprima lignei e poi (sec. I) in muratura (gli attuali ponti Fabricio e Cestio), uniti da una via (vicus Censorii).
Luogo di culto per varie divinità, fu dedicata principalmente al dio della medicina Esculapio, il cui serpente, portato a Roma da Epidauro per debellare la peste del 293 a.C., saltando dalla nave che lo trasportava avrebbe ridisceso il Tevere dai Navalia del Campo Marzio fino all'isola scomparendo poi nel luogo dove fu costruito il nuovo tempio, inaugurato nel 289 a.C. Attorno al tempio, come ad Epidauro, dovevano sorgere dei portici destinati al ricovero dei fedeli malati, ed è certamente singolare che l'isola abbia continuato ad essere luogo di cura e sede di un ospedale attraverso il Medioevo fino ai nostri giorni.
Altri santuari minori occupavano il lato settentrionale dell'isola: quelli di Fauno e di Veiove, dedicati ambedue nel 194 a.C., erano probabilmente vicini tra loro; un sacello di Iuppiter Iurarius (garante del giuramento) sorgeva in corrispondenza della chiesetta di S. Giovanni Calibita, dove fu scoperto un mosaico con il nome della divinità. Da un'iscrizione si deduce anche il culto di Bellona, detta Insulensis.
La leggenda e il profilo dell'isola suggerirono la sistemazione del perimetro esterno in forma di nave da guerra, con arginature e terrapieno attrezzate per gli ormeggi e con un obelisco come albero maestro, due frammenti del quale sono conservati nel Museo Nazionale di Napoli ed un terzo a Monaco. Era interamente costruita in travertino, lunga in asse 280 m., larga 76.
Nel Medioevo lo spoglio e il generale degrado del fiume ne alterarono la fisionomia con la formazione per distacco di un isolotto verso monte (rinsaldato nel 1791); alla fine del '500 la tradizione sanitaria dell'isola, favorita anche dalla presenza di una fonte d'acqua ritenuta salutare, fu rinverdita con la costruzione del primo nucleo dell'ospedale (1548) e tutta l'area divenne lazzaretto durante la peste del 1656.
Profondamente alterata dalla sistemazione degli argini alla fine dell'800 (quando se ne ipotizzò l'eliminazione), dalla manomissione del ponte Cestio e dalla ricostruzione dell'ospedale, ha però mantenuto il carattere di appartato luogo di cura e di culto.
L'estremità a monte della banchina è stata recentemente allungata collegandola al pilone centrale del Ponte Garibaldi per meglio regolarizzare il flusso delle acque.


Descrizione
L'isola conserva tuttora la caratteristica forma della nave di Esculapio: sotto la rampa della scala pensile della sede della Polizia Fluviale verso valle si possono notare gli avanzi della sistemazione monumentale, coeva del ponte Fabricio, della punta dell'isola a forma di nave: sui blocchi di travertino che rivestono il nucleo interno in peperino (visibile sotto un'arcata a destra) si riconoscono scolpiti il busto di Esculapio, il serpente arrotolato attorno al bastone, simbolo del dio, e una protome taurina.
Arrivando sull'isola dal Ponte Fabricio si trova a destra la chiesetta di S. Giovanni Calibita affiancata da un piccolo campanile barocco e a sinistra la medievale torre Caetani, potente famiglia romana che aveva trasformato l'isola in un proprio fortilizio; si sbocca quindi nella piazza di S. Bartolomeo al centro della quale si trova la Guglia di Ignazio Giacometti (1869) con coronamento a cuspide e quattro statue di santi (S. Bartolomeo verso la chiesa, poi in senso orario S. Francesco, S. Giovanni di Dio e S. Paolino vescovo) fatta edificare da Pio IX come riportato nell'iscrizione: "PIUS IX PONT.MAX IN COLUMNAE LOCUM QUAE PLAUSTRI IMPETU QUASSATA CONCIDERAT PECUNIA SUA FIERI ERIGIQUE IUSSIT - ANNO CHRISTIANO MDCCCLXIX CONCILIO VATICANO INEUNTE [Pio IX Pontefice Massimo, nel luogo della colonna che era caduta a terra rovinata dall'impatto di un carro, comandò che (questa guglia) fosse costruita e innalzata a sue spese. Anno cristiano 1869, inizio del Concilio Vaticano].
La chiesa di S. Bartolomeo "de insula", con il suo bel campanile romanico, fa da sfondo alla piazza: fu eretta nel X secolo, ed occupa il luogo del Tempio di Esculapio, dio della medicina, del quale però non rimangono avanzi (ma il pozzo medievale che sta al centro della gradinata del presbiterio potrebbe corrispondere alla fonte sacra che doveva trovarsi nell'area del tempio, dal quale potrebbero provenire anche le quattordici colonne antiche di spoglio che dividono le navate); sul frontone della chiesa è riportata la dedica al santo: "IN HAC BASILICA REQUIESCIT CORPUS S.BARTHOLOMAEI APOSTOLI" [In questa basilica riposa il corpo dell'apostolo S. Bartolomeo].
La parte settentrionale dell'isola è tuttora occupata dall'Ospedale S. Giovanni di Dio o Fatebenefratelli (dall'intercalare dei questuanti) il cui primo nucleo risale al 1548.


Leggende e curiosità
da Rodolfo Lanciani [1] - pagg.31-32:
Una ricostruzione di fantasia dell'isola si trova in Villa d'Este a Tivoli, formando parte della pianta a rilievo della città di Roma che Pirro Ligorio pensò di aggiungere alle curiosità di quel delizioso luogo. Un corso d'acqua, derivato dall'Aniene, rappresenta il Tevere, nel quale la nave sembra galleggiare, con l'obelisco in guisa di albero maestro e le armi del Cardinale Ippolito d'Este al posto dell'emblema del "dio misericordioso". [1]

da Christoff Neumeister [2] - pagg.194-196:
L'INTRODUZIONE DEL CULTO DI ESCULAPIO A ROMA (Ovidio, Metamorphoseis, XV 626-744)
L'antico viaggiatore, arrivando sull'Insula dal Pons Fabricius, avrebbe scorto alla sua sinistra il santuario del dio guaritore Esculapio = Asclepio. Eccone la storia.
Quando nel 293 a.C. Roma venne investita da un'epidemia che non si riusciva a debellare, si interrogarono i Libri Sibillini (ovvero, secondo quanto ci dice Ovidio nelle sue Metamorfosi, l'oracolo di Delfi) per sapere come si potesse scampare al flagello. La risposta fu che si doveva trasportare il dio Esculapio dal suo più importante santuario, sito ad Epidauro, a Roma. Venne perciò inviata per mare un'ambasceria, con il compito di chiedere che le venisse concesso il dio (o più precisamente la sua immagine cultuale). Tuttavia, mentre si svolgeva la trattativa, ecco apparire il dio stesso in forma di gigantesco serpente, il quale salì spontaneamente sulla nave dei romani. Questi ultimi allora si misero in rotta per il ritorno e, favoriti da venti straordinari, giunsero alle foci del Tevere dopo aver compiuto un solo scalo intermedio. Qui vennero accolti dal popolo festante e quando la nave, risalendo il fiume, arrivò in città, il serpente divino si arrampicò sull'albero maestro e si guardò intorno; poi scivolò giù dalla nave, prendendo terra sull'isola Tiberina, dove gli venne eretto un tempio.
Questo è il racconto leggendario che spiega perché il santuario di Esculapio sia stato fondato sull'isola Tiberina. La vera ragione dovette essere molto più semplice: bisogna tener presente, infatti, che, come in altri centri del culto di Esculapio, al santuario era annessa una sorta di ospedale, per il quale era raccomandabile disporre di una zona per quanto possibile isolata e nello stesso tempo non distante dalla città. L'isola Tiberina soddisfaceva molto bene ad entrambe le condizioni, tanto più che nelle epoche più antiche essa non era collegata alla città per mezzo di ponti.

Erano in molti ad usufruire dell'aiuto del dio (cioè a dire dei suoi sacerdoti terapeuti). Ne fanno fede le iscrizioni e soprattutto le innumerevoli tavolette votive che sono state rinvenute nel letto del Tevere negli anni 1885-1887, in occasione dei lavori di sistemazione dell'alveo del fiume. Queste tavolette erano principalmente espressione dei ceti più umili (liberti e schiavi). Dato che con l'andare del tempo si era sempre più diffusa la crudele abitudine di abbandonare sull'isola Tiberina gli schiavi malati, il cui mantenimento era diventato troppo oneroso per i loro padroni, l'imperatore Claudio ordinò che ogni schiavo abbandonato, nel caso in cui riuscisse a guarire, poteva considerarsi libero, senza alcun obbligo di tornare sotto l'autorità del proprio padrone.
Nave di
                    EsculapioA ricordo della leggenda di fondazione, l'isola venne rivestita con un paramento in travertino a forma di nave - stranamente però non con la prora rivolta in senso contrario alla corrente, come ci si poteva attendere sulla base della leggenda, bensì rivolta verso il mare, quasi che la nave di Esculapio si trovasse, per così dire, alla fonda. Resti di questa sistemazione monumentale sono ancora oggi visibili; più in particolare si tratta dell'estremità anteriore della zona degli scalmi (v.fig.: Ricostruzione della prora della nave di Esculapio secondo O. Höckmann, München 1985), sul cui lato compare una decorazione a testa di ariete del tipo che in antico serviva a proteggere i fianchi della nave al momento dell'attracco; sul da vanti è possibile vedere il noto simbolo del dio, che ancora oggi costituisce l'emblema dei medici e dei farmacisti: un bastone attorno al quale si attorciglia un serpente (Ovidio, Metamorphoseis, XV 659): serpentem, baculum qui nexíbus ambit. Sull'isola fu simbolicamente rappresentato anche l'albero maestro della nave di Esculapio, dal quale il serpente al suo arrivo scorse il luogo dove sarebbe dovuto sorgere il suo tempio: si tratta va di un obelisco posto al centro dell'isola e del quale si rinvennero le fondamenta nel 1676.

I MURAGLIONI
La sorte dell'Isola Tiberina è stata in forse quando, alla fine del '800, dopo la proclamazione di Roma a capitale d'Italia, si decise di dare al Tevere, che spesso rompeva gli argini allagando i quartieri circostanti, una sistemazione definitiva più degna del nuovo ruolo della città.
Tra i vari progetti (uno dei quali prevedeva addirittura l'interramento del ramo sinistro del fiume, per sua natura più statico del destro e tendente all'insabbiamento, con conseguente scomparsa dell'isola e sua annessione alla sponda sinistra del Tevere) fu approvato nel 1875 il progetto Canevari che prevedeva l'imbrigliamento del Tevere tra due "muraglioni" ed in particolare:
-regolarizzazione del corso del fiume nel tratto urbano ad una larghezza costante di 100 m ai piedi dei muraglioni
-conservazione dell'Isola Tiberina abbracciandola con due rami del fiume rispettivamente di 60 m a sinistra e 70 a destra
-allargamento di Ponte Cestio e demolizione del Ponte Rotto
I lavori ebbero inizio nel 1877.
Così scriveva in proposito Luigi Pirandello (da "Pianto del Tevere"):
"Ma non lo vedrete più com'io lo vidi per Roma, un giorno, il Tevere passare tra i naturali scoscesi lidi. (...) Una prigion di grigie dighe e gravi ponti or l'incassa che le svolte inarena quanto più l'acqua s'abbassa. E secco è il braccio con cui prima quella che dei Due Ponti l'isoletta fu, cingeva come fosse la sua bella."


Ponte Fabricio
Storia
PONS FABRICIUS (detto anche Pons Judaeorum, Ponte Quattro Capi) tra l'isola e la riva del Campo Marzio.
Scrive Rodolfo Lanciani [1] - pagg.30-31:
L'isola di Esculapio doveva essere unita alla riva sinistra da un ponte di legno già nel 192 a.C. (Liv., XXXV,21, 5). Si suppone che vi fosse una struttura simile sul lato opposto, verso Trastevere e la sommità fortificata del Gianicolo. L'anno 62 a.C., L. Fabricio, curatore delle strade (curator viarum), lo trasformò in un solido ponte di pietra. L'iscrizione commemorativa, incisa su entrambe le facciate, è seguita dalla dichiarazione dei due consoli dell'anno 21 a.C., P. Lepido e M. Lollio, che approvarono l'opera come pienamente soddisfacente. Quest'iscrizione ci insegna la saggezza dell'amministrazione romana: gli appaltatori del lavori di costruzione dei ponti erano garanti della solidità del manufatto per ben 40 anni, e solo al 41° potevano reincamerare il deposito cauzionale da loro versato in anticipo. Il fatto che il ponte sia sopravvissuto sino ad oggi è la migliore lode della sua solidità.
La data della costruzione ci è confermata da Dione Cassio (XXXVII, 45), mentre la seconda iscrizione, più probabilmente, ricorda gli autori di un restauro conseguente ai danni provocati dalla piena del fiume dell'anno 23 a.C.
Il ponte, a due grandi archi ed un piccolo fornice di piena aperto nel pilastro centrale, si è conservato quasi integro. Un altro arco di approccio a riva è stato coperto dal muraglione moderno dell'arginatura.
Il nucleo è costituito da blocchi di tufo e peperino, mentre il rivestimento, conservato solo in parte, è di travertino; la sua sostituzione con cortine in mattoni (da alcuni attribuita al restauro del II secolo d.C.) è del 1679, come testimonia un'iscrizione di Innocenzo XI conservata ancora alla testa del ponte verso l'isola.
Fu detto nel Medioevo "pons Judaeorum" quando la comunità ebraica occupò la zona adiacente, nota come Ghetto.
E' detto popolarmente "ponte Quattro Capi " per le due erme romane quadrifronti all'estremità dei parapetti, probabili sostegni delle balaustre in bronzo; se ne conservano solo due in situ.
E' stato recentemente restaurato nell'ambito dei lavori previsti a Roma per il Giubileo del 2000.


Descrizione, Leggende e curiosità
Lungo 62 m per 5,5 di larghezza, il ponte è a due grandi arcate (di circa 24,5 m) con pilone mediano nel quale si apre un piccolo fornice destinato ad alleggerire la spinta dell'acqua di piena.
Il nucleo interno della costruzione è in tufo e peperino, il paramento esterno in blocchi di travertino, mentre il rivestimento è in mattoni.
Quasi alla testata del ponte, inserite nelle spallette moderne, si trovano due erme marmoree quadrifronti, nelle cui scanalature laterali erano forse inserite le originarie balaustre di bronzo.
Sulle arcate del ponte è riportata, incisa a grandi lettere quattro volte (due nel lato a monte e due in quello a valle), l'iscrizione del 62 a.C. commemorativa della costruzione, mentre nell'arcata più vicina alla riva (così come nella corrispondente a valle) un'iscrizione più piccola del 21 a.C. ricorda gli autori di un restauro conseguente ai danni provocati dalla piena del fiume dell'anno 23 a.C.
Questo è il testo delle due iscrizioni:
L.FABRICIUS C. F. CUR(ATOR) VIAR(UM) FACIUNDUM COERAVIT EIDEMQUE PROBAVEIT
[Lucio Fabrizio, discendente di Caio, Sovrintendente delle Vie, supervisionò l'esecuzione dei lavori (lett. "le cose che si dovevano fare") ed anche (li) approvò]
M. LOLLIUS M. F. Q. LEPIDUS M. F. CO(N)S(ULES) EX S(ENATUS) C(ONSULTO) PROBAVERUN(T)
[I consoli Marco Lollio, discendente di Marco, e Quinto Lepido, discendente di Manlio, approvarono (il ponte) per decreto del Senato]

Leggende e curiosità
Scrive nel 1907 Giggi Zanazzo [3] - pagg.284-285:
Ponte Quattro Capi.
Come saperete tutti, Sisto Quinto, che regnò ccinque anni, fece fa' ccinque strade, cinque funtane, cinque guje, cinque ponti, e llassò ccinque mijoni drento Castello.
Uno de li ponti che ffece arifà fu quello chiamato ponte Quattro capi.
E lo volete sapé' ssì pperché sse chiama accusì?
Perché ddice ch'er papa fece rifà' quer ponte che stava pe' ccascà', da quattro bbravi architetti, che, ttramente lo staveno a llavorà', vìnnero a quistione tra dde loro ar punto tale, che cciamancò un tòmbolo d'un pidocchio che nun ce scappasse l'ammazzato.
Saputa 'sta cosa da Sisto Quinto, che, ccome saperete, ce n'aveva poche spicce, fece agguantà' ttutt' e quattro l'architetti e ddetto un fatto te jè fece tajà' la testa sur medemo ponte, e jè le fece aspone llì.
Poi, sempre per ordine der papa, quele quattro teste furno fatte fa' dde pietra, e ffurno mésse accusì scorpite, da capo ar ponte indove incora ce stanno e cche j'hanno dato er nome


de ponte Quattro Capi.

Altra interpretazione, di Luciano Zeppegno [8] - pag.865:
... posso anche ammettere che i quattro capi non siano le Erme quadrifronti sul ponte, tanto più che, nel caso, sarebbero, come afferma giustamente il Delli, niente di meno che otto. Però insisto sul motivo già espresso ...: il ponte, essendo doppio, cioè constando di due ponti ben differenziati, ma disposti sulla stessa asse, viene ad avere fin troppo ovviamente quattro capi, cioè due sull'isola, più uno in sponda destra, più un altro in sponda sinistra. Perché escogitare altre elucubrazioni quando vi è una spiegazione così semplice?

Ponte Cestio
Storia
PONS CAESTIUS (detto anche Pons Gratianus, Ponte di S. Bartolomeo, Ponte ferrato), tra l'isola e Trastevere.
La sua costruzione, risalente al 46 a.C., è attribuita a Lucio Cestio, uno dei magistrati cui Cesare affidò l'amministrazione della città durante la sua campagna di Spagna.
Il ponte antico era lungo poco meno di 50 m e aveva un'arcata centrale, a sesto ribassato, fiancheggiata da due fornici minori lunghi circa 6 m.
Fu ristrutturato da Aurelio Avianio Simmaco, Praefectus Urbi sotto gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano e a quest'ultimo dedicato nella primavera del 370 d.C. e perciò detto "pons Gratianus".
Nel 1191-93 il ponte ormai "fere dirutum" (quasi distrutto) come testimonia l'iscrizione tuttora murata sulla spalletta del ponte, fu di nuovo restaurato da Benedetto Carushomo (Carissimi), senatore unico della città.
Fu chiamato nel tardo '400 "di S. Bartolomeo" (dalla chiesa omonima sull'isola) e nel '700-'800 "ponte ferrato".
In attuazione del progetto Canevari, che fissava in 70 m la larghezza di questo ramo del Tevere presso l'Isola, il ponte venne smontato nel 1888 e ricostruito a tre archi uguali, impiegando per quanto possibile i materiali originari; rientrò in funzione nel 1892. In occasione di tale rifacimento si scoprì che nel IV sec. Simmaco si era servito per il restauro dei blocchi di travertino dell'ordine inferiore (dorico) del teatro di Marcello e di qualche iscrizione storica del tempo di Traiano.
Le due grandi arcate laterali, dopo la piena del 1900, furono "imbrigliate" (1901) per ripristinare l'antico flusso.
E' stato recentemente restaurato nell'ambito dei lavori previsti a Roma per il Giubileo del 2000.


Descrizione
Pressoché totale rifacimento dell'antico Pons Caestius, è costituito da tre archi uguali; i due laterali sono imbrigliate per ridurre il flusso del ramo destro del fiume.
Sulla spalletta a monte sono state ricollocate le iscrizioni commemorative dei restauri eseguiti da Graziano (sec. IV) e da Benedetto Carushomo (BENEDICTUS ALME URBIS SUMM SENATOR RESTAURAVIT HUNC PONTEM FERE DIRUTUM) nel 1191-93.

Leggende e curiosità
"Lycaonia", uno dei nomi con cui fu chiamata l'Isola Tiberina, deriva probabilmente dalla collocazione sul ponte di una statua rappresentante questa regione dell'Asia Minore che divenne provincia nel 373 d.C.

Una seconda iscrizione commemorativa del restauro di Graziano, identica a quella tuttora visibile, era originariamente collocata sull'altra spalletta; essa fu gettata nel fiume dai difensori della Repubblica Romana nel 1849 nel tentativo non riuscito di tagliare il ponte.



Ponte Rotto
Storia
PONS AEMILIUS (detto anche Ponte S.Maria, Ponte Senatorio, Ponte Rotto).
Nel primi giorni di Roma esisteva una sola linea di comunicazione della città con le città dell'Etruria: la strada che, passando sul ponte Sublicio, tagliava la pianura trasteverina all'altezza di S. Cosimato e saliva ripida sul Gianicolo. Le cose migliorarono verso il VI sec. di Roma (II a.C.), quando furono creati una nuova via, l'attuale Lungaretta, e un nuovo ponte.
L'antico "Pons Aemilius" fu il primo in pietra sul Tevere (il Ponte Sublicio era in legno). Fu eretto in due fasi: nel 181-179 a.C. i censori Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore innalzarono i pilastri che sostenevano una passerella in legno, che nel 142 a.C. fu sostituita con quattro arcate in muratura da Publio Scipione Emiliano e Lucio Mummida.
Data l'obliquità del Pons Aemilius rispetto all'asse di corrente, e la pressione sui lati che in questo punto di curva esercita il fiume, il ponte è stato travolto almeno quattro volte.
La prima inondazione avvenne al tempo di Probo, verso il 280 d.C.; la seconda, nel 1230, quando venne di nuovo ricostruito da Gregorio IX. Allo sfortunato intervento di Michelangelo (1548-49) proseguito da Nanni di Baccio Bigio (1551) seguì la terza piena, il 27 settembre del 1557; l'ultima ricostruzione fu ad opera di Matteo da Città di Castello nel 1573-75 sotto Gregorio XIII (sul rudere insegna araldica del drago del Papa); fu quindi utilizzato da Sisto V per il passaggio dell'Acqua Felice in Trastevere; infine la piena del 24 dicembre del 1598 travolse definitivamente l'arcata verso la riva sinistra che non fu più ricostruita.
Nel 1853, sotto Pio IX, fu costruita da una società francese una passerella sospesa in ferro, simile a quella del ponte dei Fiorentini, in sostituzione delle precedenti malsicure travature in legno, per unire le tre arcate superstiti del ponte alla riva sinistra.
In attuazione del progetto Canevari per la sistemazione delle rive del Tevere le due arcate verso la riva destra furono abbattute (1877) per erigere a valle, quasi rasente all'unica arcata superstite, il Ponte Palatino (Angelo Vescovali, 1886-1891).
Nei secoli il ponte cambiò più volte denominazione, assumendo quelle di "Ponte S. Maria", di "Ponte Senatorio" fino a quella attuale di "Ponte Rotto".


Descrizione
L'unica arcata superstite del vecchio Pons Aemilius risale alla metà del '500, quando fu eseguito l'ultimo rifacimento del ponte; tuttavia essa poggia ancora sui piloni a sperone, in blocchi di travertino, del II sec. a.C.
Sono tuttora visibili su entrambi i lati del ponte, sia nelle insegne alla sommità dell'occhio di piena che nei fregi agli angoli dell'arco, i simboli del drago di Gregorio XIII.

Leggende e curiosità
Così come accade ancora oggi, anche nell'antica Roma i ponti erano tra i luoghi preferiti per suicidarsi ed inoltre, a quei tempi come ora, le loro arcate offrivano riparo ai mendicanti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, esiste una testimonianza piuttosto umoristica tramandataci da Giovenale nella sua satira VI (VV. 28-32), nel brano in cui si parla di un tale Postumo che è in procinto di sposarsi: "Sei forse diventato matto?", gli chiede il poeta tutto agitato: "ti vuoi sposare sebbene tu abbia a disposizione tutte le corde che vuoi (per impiccarti), con tante finestre che ci sono ai piani alti (per gettarti di sotto) e quantunque il Ponte Emilio ti stia a due passi? " (cum tibi vicinum se praebeat Aemilius Pons?).
Il fatto poi che i mendicanti abitassero sotto i ponti era per i romani una realtà così familiare che la parola stessa pons veniva usata per indicare in modo sintetico una condizione di estrema povertà. Marziale finisce di descrivere quel trasloco particolarmente miserando che abbiamo già citato nel cap. II (XII 32) con la frase: "Questa processione di cianfrusaglie ben si addice ad un ponte" (haec sarcinarum pompa convenit ponti).
Giovenale, nella sua satira XIV, conclude il quadro della magra cena di un ricco avaro (tozzi di pane ammuffito, avanzi del giorno prima, vecchie fave, pesci di poco prezzo, fette di cipolla contate) con le parole (v. 134): "Se fosse invitato, anche uno che vive sotto i ponti rifiuterebbe" (invitatus ad haec aliquis de ponte negabit).


Bibliografia
[1] Rodolfo Lanciani "Rovine e scavi di Roma antica" - 1897; Ed. Quasar - 1985
[2] Christoff Neumeister "Roma antica - guida letteraria della città" - 1991; Ed. Salerno Editrice - 1993
[3] Giggi Zanazzo "Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma" - 1907/1910; Ed. La bancarella romana - 1994
[4] Romolo A. Staccioli "Guida di Roma antica" - 1986, Ed. BUR Rizzoli - 1986
[5] AAVV "Guida d'Italia - ROMA" - 1993; Ed. Touring Club Italiano - 1993
[6] Filippo Coarelli "Roma" - 1999; Ed. GLF Editori Laterza - 1999
[7] Armando Ravaglioli "Le rive del Tevere" - 1982; Ed. Edizioni di Roma Centro Storico - 1982
[8] Luciano Zeppegno "I rioni di Roma" - 1978; Ed. Newton Compton editori - 1984